CON GIULIO DI MEO
Raccontare il mondo ai suoi abitanti, denunciarne la miseria e le prevaricazioni subite dagli ultimi: questo è il compito di quella che amo definire “fotografia sociale”. Una fotografia desiderosa di farsi carico delle lotte, della rabbia, delle ingiustizie che ci circondano; una fotografia capace di indignare parlando con amore, passione e speranza. Immagini che documentano, ma che al tempo stesso diventano custodi della memoria, raccogliendo il testimone da chi non avrà più voce per portarci ancora avanti nel tempo. Ma la memoria è anche altro: è attiva nel presente come una geografia della vita umana, in tutte le sue forme e in tutti i suoi bisogni.
Arroccati nelle nostre convinzioni, perimetriamo il mondo su quello che vediamo, rassicurandoci nella nostra identità: siamo padroni nella cerchia o nella prigione della nostra certezza.
La fotografia dovrebbe costringerci alla memoria del presente, consegnando alla nostra vista i volti di altri uomini che vivono questo pianeta oggi, contemporaneamente a noi: non tutti vivono come noi, non tutti sono come noi, non tutti sono quello che noi immaginiamo. I loro volti si animano su sfondi che non sono quelli della nostra esperienza e aprono, allargano, valicano i confini che avevamo comodamente posto al nostro modo di intendere la vita.
Ed ecco allora che la “geografia dell’umanità” si fa composita, multiforme, inquietante e mette in crisi, se lo vogliamo, le nostre certezze. Narrando questa geografia la fotografia può diventare veicolo per un cambiamento personale, sociale e politico, attraverso immagini che non restano un semplice sguardo pietoso ma diventano strumento per contribuire alla costruzione di una società meno arroccata e prepotente.