L’idea di questa mostra è nata riordinando i nostri archivi. Per qualsiasi fotografo questa non è solamente l’occasione per selezionare gli scatti migliori, ma è soprattutto il momento per rimettere a posto le idee, i ricordi, cercando la chiave più giusta per trasformare le immagini in racconti. E può capitare che fotografie inizialmente scartate all’improvviso riemergano, diventando il cuore stesso delle nostre storie. “Arma il prossimo tuo” è nata in questo modo: lentamente, passo dopo passo, giorno dopo giorno. Era semplicemente nascosta nei reportage realizzati nei Balcani, nel Caucaso, in Europa; e poi ancora in Asia, Medio Oriente, Africa. In quei lavori abbiamo trovato ciò che inconsapevolmente stavamo cercando da molto tempo: quel che resta di Dio nei luoghi in cui si combatte, si soffre, si muore. È il Dio urlato dai miliziani di Aleppo prima di lanciarsi in battaglia nella città ridotta in macerie; è quello pregato sottovoce nelle trincee anguste che da venticinque anni separano il Nagorno- Karabakh dall’Azerbaijan; è quello impigliato nel filo spinato che protegge chiese, moschee e sinagoghe dal Kosovo fino a Gerusalemme; è quello tatuato sulla pelle sbiadita dei soldati del Donbass; è nelle immagini che adornano i blindati apparentemente invincibili che arrancano in Afghanistan. La fede è la sottile linea rossa che svela conflitti spesso sconosciuti perché lontani dai riflettori dell’informazione. Guerre sovente combattute a poca distanza dal nostro Paese, come quella scoppiata nel 2014 in Ucraina, Europa. Questo non è però un lavoro sui conflitti religiosi o sull’epocale scontro in atto fra Islam e Occidente. “Arma il prossimo tuo” è il racconto del confine sottilissimo che mai come in guerra separa la vita dalla morte. Era anche l’ultimo argine di Sergey, il soldato ucraino diventato il simbolo di questo lavoro. Aveva 44 anni, lo sguardo vuoto, un crocifisso accanto al pugnale: un mese dopo il suo filo invisibile è stato strappato per sempre dalle schegge di un mortaio nemico.